L’ARGIMUSCO

Tratto da “La Scoperta dell’Argimusco”, di Paul Devins, Lulu, Gennaio 2011, pag. 30 e seg (note nel testo) (…) Durante le nostre ricerche scoprimmo un documento del 16 luglio 1308, siglato e inviato dall’Argimusco, da parte di Federico III. Con esso Federico risponde a Giacomo II che gli propone una tregua con Roberto duca di Calabria (e proprio, Arnaldo da Villanova era medico e consigliere di Giacomo II d’Aragona (che visse dal 1264 al 1327 ed era figlio di Pietro III re di Sicilia). Avevamo, pertanto, provato che la torre/fondaco dovrebbe essere stata utilizzata da Federico III d’Aragona e, con ogni probabilità, anche dall’alchimista Arnaldo. Il fatto che la torre fondaco si trovi a poche decine di metri dal sito dell’Argimusco ci faceva ben supporre che certamente i due, Federico e Arnaldo, conoscessero il sito. Eravamo passati dagli indizi alle certezze documentali: Federico III risiedeva lì tanto da inviare lettere diplomatiche di Stato dall’Argimusco. Ma c’è di più. Poco dopo leggemmo sull’Historia di Bartolo Meo da Neocastro che nel 1282 Pietro III d’Aragona, I di Sicilia, padre di Federico III, dovendo recarsi da Randazzo a Messina, raggiunse il «locum qui dicitur Argimustus», e da qui «descendens apud furnarum, ibi residens noctem fecit». Pietro III d’Aragona, inoltre, guardando il panorama dall’alto dell’Argimusto ammirò la «sedes helene tindaree, ubi virginis hodie sacre domus excolitur», ovvero ammirava Tindari ove già allora insisteva il santuario. Dunque, il luogo era già chiamato Argimustus nel 1282 e successivamente nel 1308. Tommaso Fazello, nella Storia di Sicilia, poi ci racconta che Blasco Alagona fece trasferire un tale Arlotto la notte del 22 febbraio dell’anno 1356 verso Catania. La scorta mossasi lungo la trazzera regia “in direzione Argimosco”, dopo tre miglia fu aggredita da un gruppo di ribelli capeggiati dal figlio dello stesso Arlotto, al grido di “Moranu li trajturi et viva lu re e lu populu”. “Nessuno può più dubitare che Federico III e Arnaldo non conoscessero l’Argimusco”, pensammo, sorridendo al pensiero di quanti storici del medioevo conoscevano il nome Argimusco…! ….. L’erede del re Federico III d’Aragona, Pietro II, diede investitura del feudo a Blasco Alagona, gran giustiziere del regno. Alla morte di re Pietro ebbe inizio una lunga lotta, per assicurarsi la maggiore autorità nel regno, tra l’Alagona divenuto tutore del piccolo re Ludovico, e Matteo Palizzi, conte di Novara favorito dalla regina reggente Elisabetta. Questa, in contrasto con Blasco Alagona che lo voleva a Catania, condusse qui il fìglioletto adducendo il pretesto che Ludovico abbisognava di aria pura, e stabilitasi al castello continuò i segreti accordi col Palizzi (1348). In seguito madre e figlio rientrarono a Messina e nel 1350, conclusasi una pace tra i due rivali, castello e contea furono del Palizzi ma tre anni dopo, alla morte di questi (odiato dai messinesi per i suoi soprusi), tornò all’Alagona. Dopo l’infausto ritorno nell’isola di Ludovico d’Angiò (1356), questi assegnò il castello a Niccolo Cesareo ed a seguito di alterne vicende militari, conclusesi con la vittoria siciliana per la terza volta esso tornò alla casa Alagona. Successivamente ne divenne signore Berengario Cruillas e poi Tommaso Romano, entrambi partigiani di re Martino, che in quel tempo regnava in Sicilia, ed un lontano discendente del Romano, nel 1517, fu assediato nel castello dal popolo in rivolta. Dopo numerosi passaggi ereditari esso giunse per linea femminile alla famiglia Bonanno che ebbe poi il ducato di Montalbano. I Bonanno, ci interessarono particolarmente. I Bonanno sono stati sempre dietro gli avvenimenti svoltisi sull’Argimusco dal 1600 fino al 1805 durante tutta “l’epoca di notorietà” dimostrata dalle cartine geografiche. Osservammo che tra i Bonanno c’erano stati personaggi di cultura come Giacomo Bonanno Colonna, autore di un libro sulle antichità di Siracusa “commendato dal Mongitore” e insignito poi duca di Montalbano. C’era, inoltre, stato un tale Girolamo Bonanno commendatore dell’Ordine Sovrano di Malta, di cui nella vicina Rodì Milici esistevano due importanti chiese. Cagliostro, ricordammo, massone del grado più alto quale Cavaliere di Rosa Croce (il cui simbolo era proprio il Pellicano, visto all’ingresso dell’Argimusco), con il suo Maestro Althotas, venne iniziato proprio a Malta dal Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, Don Manuel Pinto de Fonseca. Aggiungemmo, ancora, che, come affermato da Paul Sedir, una costante della confraternita fosse il fatto che un’onorificenza di cui venivano insigniti i Cavalieri di Rosacroce: era il Toson d’Oro, o Vello d’Oro. Il Toson d’Oro venne istituito nel 1459. Secondo il Semler l’origine della confraternita Rosacroce era da fare risalire al secolo quindicesimo. Lo stesso autore sosteneva ancora che la confraternita avesse ricavato il proprio nome da un “…tale cavaliere Rosenkreutz” appartenente, appunto, all’Ordine del Toson d’Oro. Secondo lo stesso autore esisteva una società Rosacroce in Italia già nel 1410. Il nome stesso del Toson d’oro, aureum vellum in latino,goldenes Vlies in tedesco, può facilmente diventare goldener Flus, oro liquido o potabile, tipico concetto alchemico rosacroce. Bene, scoprimmo che tra i Bonanno di Montalbano vi erano stati ben tre personaggi della famiglia insigniti del Toson d’Oro. Tra le precedenti famiglie Alagona e Palizzi proprietarie dei feudi di Montalbano non vi furono Toson d’Oro. Trovammo, pure, che un penitenziato dell’Inquisizione con autodafè del 9 settembre 1640, il dotto giurista messinese don Nicolao Serpetro, era stato ospite e protetto di Pietro Bonanno Balsamo, figlio di Don Giacomo Bonanno Colonna. La Messana, nel suo monumentale volume sulle streghe in Sicilia , scrive che Serpetro era esperto di astrologia e che nella perquisizione del Santo Uffizio, si trovarono fogli con “certe figure e nomi”. Serpetro aveva imparato, inoltre, a memoria (aveva una memoria prodigiosa) interi capitoli del “De Horis et virtutibus planetarum”, parte del famoso testo esoterico “La Caviglia di Salomone”. Bene, la cosa interessante è che il Serpetro, oltre ad essere protetto del figlio di Giacomo Bonanno, duca di Montalbano, era anche originario per parte di madre, Domenica Pagano, proprio di Montalbano. Che Serpetro e i suoi protettori fossero stati sull’Argimusco ad applicare precise conoscenze astronomiche diventava sempre più probabile. Il fatto che ben due inquisitori autori dei testi E allora? Ci ricordammo che su 19 Primi Inquisitori Siciliani diventati vescovi tra il 1500 e il 1776 ben 5 sono stati i vescovi di Patti. Particolare non trascurabile il fatto che due di essi Bartholomè Sebastian e Arnaldo Albertini si siano contraddistinti il primo in efferatezza, come nel caso della tortura di Pellegrina Vitello nel 1555, il secondo per l’introduzione, con il suo “Tractatus”, del reato di pensiero nella prassi giudiziaria dell’Inquisizione spagnola, ci dava da pensare. Il vescovo di Patti aveva giurisdizione su Montalbano. …. Il Maier nella Themis Aurea, stampata nel 1618, specificava i luoghi ove sarebbe stata presente la Confraternita dei Rosacroce: “Noi non possiamo definire i luoghi in cui essi (i Rosacroce) si incontrano, né il tempo. Qualche volta ho osservato le Case Olimpiche non lontane da un fiume, e conosciuto una città che noi pensiamo si chiami S.Spirito. Intendo dire l’Elicona o Parnaso in cui Pegaso fece sgorgare la fonte di acqua zampillante a cui dove Diana si lavava, a cui Venere faceva da ancella e Saturno, da usciere gentiluomo. Ciò istruirà a sufficienza un lettore intelligente, ma confonderà di più l’ignorante”. Nella iscrizione n.XII del Atalanta Fugiens di Maier si vedeva la figura di Saturno che vomitava la pietra che egli aveva mangiato al posto di Giove. Tale pietra avrebbe costituito il monte Elicona. Lungo gli scalini che portavano al monte Elicona si trovava un ruscello che scorreva nella montagna. Dietro la stessa montagna si vedeva una graziosa città. Sotto l’iscrizione si leggeva in latino e tedesco: “La pietra che Saturno mangiò al posto di suo figlio Giove, è stata vomitata e ora è posta sul monte Elicona a monito dell’umanità”. Scoprimmo che il nome “Elicona” fu dato, al Monte Serro Seggio (Calvario) sopra Montalbano, nel 394 a.C. dai Dori, i quali credettero di ravvisare, in quell’altura, l’Helikon delle muse. Diodoro Siculo ne faceva cenno, nella Biblioteca Storica, sia con riferimento alle avventure di Ercole custode dei buoi di Citerone sia dicendo che dall’Elicona passò Gerone II, nel 370 A.C., per scendere ad Abacena (odierna Tripi) che, in effetti, è sita proprio sotto Montalbano Elicona. Lo steso trovammo per Ottaviano che nel 36 a.C. Ottaviano conducendo il suo esercito dalla costa tirrenica all’area etnea, smarrì la strada presso il monte Miconio che il Casagrandi e il Gabba identificano con il monte Eliconio, oggi monte Calvario nel territorio di Montalbano Elicona. Non trovammo trascurabile considerare che un Monte chiamato Monte di Saturno, oggi Monte Scuderi, era anch’esso poco lontano dall’Argimusco, sulla riva ionica. Dunque, la sede della misteriosa confraternita dei Rosacroce era un luogo ove si trovava una montagna chiamata Elicona. Poteva essere, proprio, Montalbano? Dovevamo indagare quali luoghi in Europa avessero quale toponimo Elicona. Bene, a parte il mitico monte greco, non vi sono erano altri luoghi, salvo Montalbano Elicona, a possedere tale riferimento mitologico nel nome. Dunque, Montalbano avrebbe potuto essere l’Elicona (o ospitava nel proprio territorio il monte dal nome Helicon), di cui parlava il Maier come sede segreta della Confraternita. Qualcosa ci diceva che eravamo finalmente sulla strada giusta. Forse lì, in gran segreto, si riunivano i Rosacroce. …. Ultima nota finale scritta su quelle relative al toponimo Elicona furono le seguenti: “Ove anche l’ipotesi di Elicona quale sede dei Rosacroce possa essere poco convincente, rimane il fatto che nella cittadina di Montalbano Elicona esiste, sotto il castello, una chiesa dedicata a Santa Caterina d’Alessandria costruita nel 1393. Santa Caterina d’Alessandria era la patrona protettrice dei filosofi e degli alchimisti. A pochi metri dal presunto luogo di sepoltura del più grande alchimista medievale, morto qualche decennio prima, costruire una chiesa dedicata alla patrona degli alchimisti avrà avuto qualche significato, o no?!?” …. Un indizio ulteriore lo trovammo con riferimento ad un ermetista napoletano di una certa notorietà all’inizio del 1600, Giovan Battista della Porta. Egli aveva scritto tra gli altri il libro “De Distillatione” nel 1608. Proprio da tale libro, abbiamo già detto, era stato preso il modello usato per scolpire nella roccia tanto il pellicano alchemico quanto il vaso alchemico. Avevamo controllato nell’iconografia e nei vari Bestiaria medievali precedenti al 1600. In nessun caso il pellicano era stato ritratto nella posizione in cui era ritratto dal Della Porta e in nessun caso avevamo trovato il vaso accanto al pellicano, così come ritratto perfettamente sia sul “De Distillatione” che all’Argimusco. Come anticipato prima, poi scoprimmo che il Caillet presentava addirittura il Della Porta “come allievo di Arnaldo da Villanova”. Come Arnaldo, Della Porta apparteneva ad una delle sette pitagoriche, mantenutesi a Napoli per secoli. Insomma, Arnaldo non sarebbe morto nel naufragio vicino Genova, né la presunta tomba indicata dal Fazello sarebbe stata veramente occupata da Arnaldo. Caillet allungava di ben tre secoli la vita di quest’ultimo. Riflettemmo sulla circostanza che le leggende Rosacroce volevano, infatti, che i membri della confraternita vivessero mille anni. Varie corrispondenze sulla lunghissima vita e la continua giovinezza di Artefio, del Conte di S. Germain, di St. Martin e del Cagliostro accompagnavano da sempre queste voci. Probabilmente, anzi sicuramente, dicemmo, Arnaldo era morto da trecento anni. Della Porta, però, ne divenne discepolo di fatto per gli interessi in toto speculari a quelli di Arnaldo. Rimaneva da chiedersi se il Della Porta fosse stato in Sicilia. Una veloce ricerca ci diede la risposta: Giovan Battista della Porta era stato tra il 1558 e il 1579 più volte in Sicilia (d’altronde non lontana da Napoli). Che egli sia stato anche sull’Argimusco ospite della Baronia dei Bonanno o che, dopo la sua morte, avvenuta nel 1615, qualche suo discepolo potesse essere stato lì non lo sapevamo. Rimaneva, però, incontestabile il fatto che l’unica iconografia conosciuta del Pellicano con accanto il Vaso Alchemico, ripresa anche da Jung, è stata accuratamente riprodotta sull’Argimusco. Tale iconografia voleva dare un preciso significato alchemico ai luoghi ove aveva operato l’alchimista Arnaldo riproducendo (singolarmente) proprio una speciale simbologia di un “suo discepolo”, il Della Porta. Ricordammo ancora i suoi scritti sulle streghe e alla fine considerammo, di nuovo, che ritenere che tutto questo potesse essere solo un caso, avrebbe significato andare contro ogni principio di buon senso. Eravamo, finalmente, in dirittura d’arrivo nella soluzione del mistero.